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GIUSEPPE DEBIASI COPYRIGHT 2017. TUTTI I DIRITTI RISERVATI.

'Trame d'ombra' di Luigi Meneghelli.

Arte del teatro, dove il corpo si dichiara solo come fantasma. Esibizione della scena, flagranza della finzione. La tela è diventata lo schermo sul quale la realtà trascorre come una proiezione smaterializzata, come uno spettacolo che recita la scomparsa dell'identità dell'attore. Lì si torna all'indistinzione, all'immagine primaria del gesto: la figura, simile ad un personaggio dal Kabuki giapponese, si fa risucchiare e consumare dall'oscurità: è un'ombra che si consegna all'ombra del fondo, alla clausura del quadro, quasi si rifiutasse di venire (o di ritornare) al mondo, di riappropriarsi del proprio volto, una parvenza sorpresa e spiata più nelle proprie mosse e nei propri tra/passi che nella propria definizione.
È davvero uno spazio del «tra», quello che mette in campo Giuseppe Debiasi, uno spazio intermedio, dove l'immagine figurale mostra il proprio trasferimento oltre il limite del corpo, e quindi anche lo strappo ( la separazione) nei confronti di tutto ciò che è oggetto, spessore, materia, realtà. L'artista è come Orfeo che scende agli inferi, non per portare sulla terra il simulacro di Euricide, ma proprio per vedere l'amata nella sua invisibilità, o come scrive Blanchot, per «avere vivente in essa la pienezza della sua morte». In altre parole, per osservare nella notte ciò che la notte stessa nasconde, per rilevare l'apparire della dis-simulazione, cioè della maschera, della commedia. Per questo l'opera si dà come qualche cosa di estraneo, di straniero rispetto al reale, come il segno di una mancanza o di un lutto. Essa è il luogo di una inevitabile assenza, dove però il termine «assenza» assume il concetto originario di «ab-esse», di essere altrove, di abitare al di là. La pittura allora diventa la rincorsa di quest'oltre, l'inseguimento di questa eccedenza, lo sguardo illimite del desiderio che perfora i limiti naturali del vedere, per approdare nella terra del «non-arrivo», del «non-arresto».
Le figure di Debiasi infatti sembrano sorpassare la pura figurazione, per offrirsi come accanito accumulo di tracce, come galleggiamento di consistenze vaghe, indeterminate, inafferrabili: sono le forme lavorate dalla trasformazione, apparizioni prese nel raggiro dell'apparenza, composizioni che conoscono addirittura la serialità, l'apertura della sequenza (come accade nei trittici). Ma in realtà è ogni singola figura che si costituisce come serie o come sequenza, che ingloba in sè diversi ordini costitutivi, diverse strategie aggregative. Per cui l'opera di Debiasi si definisce come limite mobile, come uno spazio dello spostamento, dove simbolicamente vengono tenuti in vista tutti i percorsi gestuali, tutti i segni provvisori e impermanenti dello scorrimento della pittura.
Così l'isteria della scena, nella sua febbrile agitazione rappresentativa, sembra ad un certo punto unificare tutti i propri movimenti in una sorta di sintesi e di suggello: è la velocità fermata in un'istantanea, lo scatto rappreso in un punto di sosta (o di sospensione), l'urto che si spezza sul lastrico della superficie. Ma probabilmente si tratta solo dell'altra faccia del teatro, quella dove i fili della metafora e del gioco si sono talmente intricati da rendere ogni articolazione scomposta o anchilosata e da confinare ogni presenza in una clandestinità sempre più profonda.
Siamo dunque ancora in una dimensione del discorso «tra», in uno «spazio di mezzo», dove i tratti corrono per bloccare (chiudere) l'immagine e dove ogni passaggio pittorico è già anche un passato, un velo posto a impedire lo svelamento delle forme. Qui non conta lo splendore dell'icona, ma proprio il suo trasfigurarsi, il suo stare con un piede sul baratro dell'eclissi, sul confine tra «l'essere e il non essere», come direbbe Borges: sagoma sconosciuta e senza nome, che intesse con lo spazio un simultaneo e ambiguo rapporto di eccitazione e di abbandono, di aggressione e di caduta. (...)

1985, Luigi Meneghelli per 'Mitologia'.