Top
GIUSEPPE DEBIASI COPYRIGHT 2017. TUTTI I DIRITTI RISERVATI.

'Il sentimento della natura, il genius loci, l'uomo e dintorni' di Luigi Meneghelli.

In apparenza: puri gesti, azioni senza controllo, annullamento dell'Io dentro le forme formate dalla materia. Se così fosse, però, il lavoro di Giuseppe Debiasi sarebbe direttamente rapportabile alle poetiche dell'Informel storico o dei Vaction Painting: ad una pratica operativa, cioè, in cui l'artista diventa la cosa stessa che sta creando, un po' alla maniera del performer che utilizza la propria presenza fisica e psichica come linguaggio. Ma così non è: Debiasi non potrà mai dire con Emilio Vedova (anche se è stato suo allievo): «un segno può essere tanta carne e ossa», ne ripetere con Jean Fautrier: «l'arte non è che il mezzo d'extériorisation dell'artista», e questo perché, mentre il pittore informale, al di là di ogni incontinenza materica o frenesia segnica, in fondo allestisce sempre una texture, una stratificazione, un muro di pittura, Debiasi invece frantuma ogni idea di dimensione, di costruzione. In altre parole, il suo colpo di pennello non parte mai da zero, in una sorta di cieco divenire e sedimentarsi dell'immagine, ma parte dall'immagine (anzi da un dato iconico precisissimo) per arrivare alla sua negazione o alla sua alterazione (al suo metaforico punto zero).
Dunque, più che a una danza Pollockiana che lascia cadere colore a gocce, a grumi, a strisce, quasi a voler mostrare il farsi stesso della materia, il quadro di Debiasi sembra accostarsi alle elaborazioni dei «corpi in posa» di Amulf Rainer: linee e colori che enfatizzano, cancellano o fanno emergere certi dettagli suggeriti dalla stessa figura. «L'arte non è lì per essere guardata - sostiene l'artista viennese - bensì per essere modificata». Il che significa superare i limiti troppo intimi e statici della forma, caratterizzandola ulteriormente, anche a rischio di dilapidarne i tratti, di smarrirne il senso.
E' un esercizio paradossalmente analitico, teorico, inteso a decostruire la certezza della visione e a far in qualche modo sporgere la visione stessa al di là di sé. Quale paesaggio, infatti, nella pittura di Debiasi, resta veramente paesaggio, e quale essere rimane veramente essere? Il corpo dell'immagine viene invariabilmente riqualificato come corpo della domanda: e cioè, che cosa è in opera nell'opera? Così, se si osserva 'La cacciata dell'angelo' si ha la sensazione di una forma sottratta al suo stesso apparire, o meglio di una presenza che riflette e che fluisce nel suo stesso riflesso: quasi trasformando la Matissiana «joie de vivre» in una sorta di «joie d'ètre vivant». Ma che cosa è veramente vivo, dinamico, che cosa spezza davvero le dimensioni spaziali del quadro? L'immagine dell'angelo (presa nella sua valenza etimologica di messaggero, di annunciatore, e quindi di nomade)? Il tentativo di mimare il concetto di volo? L'impiego di un segno esplorante e di un colore sempre in avanscoperta? Indubbiamente l'eco, la memoria della figura (o della cosa) attraversano e mobilitano il campo visivo, ma appare chiaro che è l'imperversare di un'azione rapida, sorprendentemente fulminea a sottoporre tutto ad una vera eccitazione, ad accentuare l'aspetto palpitante e vivente della scena pittorica.
Però, messa così la questione, non risolve del tutto l'interrogativo di origine Heideggeriana di che «cosa è in opera nell'opera?». Infatti Debiasi nel suo porsi oltre i puri limiti formali tiene desto (riconoscibile) il messaggio realistico, ma insieme lo traveste nel messaggio pittorico. Il che è come stabilire un equivoco tra azione e rappresentazione, o come affermare un'ambiguità tra i due intendimenti operativi.
Nel quadro dal titolo 'La finestra', ad esempio, è focalizzato il taglio in diagonale (in prospettiva) di un muro che da sul fuori, ma poi una tempesta di segni lavora sul limite (sul taglio), riuscendo a far oscillare l'equilibrio dell'immagine ed a ribaltare l'uno dentro l'altro i codici della visione: a confondere cioè esterno con interno, ma anche la veste di realismo con la veste di astrazione, il peso della materia con la levità della traccia, ecc. In questo modo si ha una perdita tutta moderna del messaggio diretto, dichiarato, a favore di un'indagine portata sul messaggio stesso.
Riprendendo Rainer (o, per altri versi, le dissolvenze di Gerhard Richter) si può allora affermare che ogni azione di disturbo o di rottura mira a mettere in questione (ad aprire) la realtà chiusa della visione: non solo, ma anche a tentare di scoprire (di farci vedere) qualcosa della realtà del visibile (del mondo). Non è un caso che le superfici di Debiasi sembrino non finire mai, ma proporsi come un inesausto divenire, come un infinito rigirare il coltello nella ferita, come un voler rimanere in una insicurezza perpetua o, per dirla con Kirkeby, «in una ambivalenza celestiale». Una ambivalenza celestiale? Certo. Del resto in che modo definire tutti gli sbilanciamenti immaginativi, tutte le rivoluzioni compositive, tutte le gravitazioni segniche che sbattono contro gli occhi e che sbattono contro il cielo del quadro (per assenza d'orizzonte?). Forse proprio questa ambivalenza è quanto è «in opera nell'opera»: il fare e il disfare, il gioco degli scambi, la doppiezza degli specchi. In opera c'è l'esperienza del limite, del confine, del bordo, del baratro: qualcosa che non si da mai totalmente in superficie, ma che si offre come promessa di alterità, di ulteriorità, di trascendenza.

1990, Luigi Meneghelli per 'Oltre'.