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GIUSEPPE DEBIASI COPYRIGHT 2017. TUTTI I DIRITTI RISERVATI.

'paesaggi' di Luigi Meneghelli.

Un segno esplorante, un colore in avanscoperta: una pittura che pare tentare lontananze, ma che invariabilmente resta sacrificata alla rapidità dell'azione, alla ful-mineità del tocco. Tocco reale, di mano. Impasto generante di vasaio, "gioia maschile (per dirla con il poeta delle réveries, Ga-ston Bachelard), di palpare l'interno delle sostanze», di conoscere la materia nella sua intimità. Ma come cercare orizzonti, mettere a fuoco distanze se tutto si produce qui, nel dentro del gesto, nel chiuso dell'impronta? Come conquistare spazi senza abdicare al senso e al peso del gesto, al suo rimanere implicato, descritto dalla materia usata? Forse l'interrogazione ha la risposta in sé, perché a ben vedere lo spazio si rivela come la funzione del gesto, è legato alla sua facoltà ricognitiva. In altre parole, l'atto modellante si porta appresso lo spazio dove appoggiarsi e dove deporre la propria corsiva traiettoria.
Ecco: la "deposizione" sembra essere una delle cifre ineludibili del fare di Giuseppe Debiasi: deporre come arrivare alla tavola della pittura, alla fine di ogni segno, al termine di ogni impulso; deporre come un muoversi estenuato, dove anche gli slanci lineari, i tracciati eccitati dei colori fìniscono per fluire nel proprio riflesso, per ripetere il loro andare; deporre come un abbandonare in continuazione ogni limite per cercare l'illimite, ciò che non ha corpo, topografia, confine.
Deporre allora il segno dello sconfinamento? Disseminare eventi che non colgono (non coagulano) nulla? Alludere ad indizi formali che non superano lo stadio dell'inizio? Direi qualcosa di più: depositare una specie di movimento nel movimento, suscitare aperture dalle aperture, come in uno scenario manierista, dove si passa da un mondo all'altro senza soluzione di continuità. È l'inafferrabile del segno che si trasferisce nel colore spingendolo oltre i propri bordi, fino a farlo rotto, liso, spezzato. Più attento alla propria corrività che all'immagine da co-struire, più accorto nel consumarsi (nel finire) che nel definire.
Si ha così come uno svuotamento di peso della costruzione, come un azzeramento della struttura compositiva, quasi l'opera volesse presentarsi come puro disegno e progetto mentale. Senza dilazioni, senza interferenze. Al punto che perfino l'esile tratto, il filo di matita con il quale Debiasi divide l'iniziale spazio del dipinto è subito inglobato e inghiottito dal gesto successivo. Dunque una inconscia "scrittura automatica", un partecipare fisico al farsi del quadro? Forse, ma non certo come in Pollock o in Tobey, dove alla fine "tout se tient": qui tutto è frammento e precarietà: è incrinatura più che saldatura, è movimento onnidirezionale, è gioco di rinvio e di specchio, è pittura che confonde apparizione e fuga, è atto che "fìssa l'assenza di fissità" (Leiris). Concetto paradossale, questo, come quello che accostava il deporre e il muovere, l'atteggiamento passivo e quello attivo. Ma non era così, in fondo, anche per gli impressionisti con quei loro tocchi riassuntivi e plenari che volevano fermare il passare dell'istante? Qualcuno, conoscendo l'attività "en plein air" di Debiasi, potrebbe, di fronte alla sua pittura, pensare all'appunto, alla danza cromatica impressionista. Ma è l'intenzione che è profondamente diversa: Debiasi non dilapida la pittura su un oggetto (su un mondo conosciuto), la dilapida casomai per fondare un mondo conoscibile, non la impiega per mimare una guardata, ma piuttosto per produrre occasioni di guardata.
E logico allora che egli scompigli e cancelli ogni direttiva e faccia vedere "l'altra direzione", quella non scelta, quella trascurata, quella senza approdo. E logico che in questo urtare, in questo gravitare multiverso di segni, la pittura stessa finisca per ritrovarsi su un supporto che richiama il movimento assoluto, come è appunto quello del cerchio. Nel cerchio ogni elemento è libero, aleatorio, ogni presenza slitta nell'altra. Nel cerchio nessun centro è possibile, nessun punto resiste: in esso si avvera "lo stadio della catastrofe". Eppure sempre il cerchio è anche la "forma" per eccellenza, la figura della perfezione, l'occhio, il mandala, il rosone classico, ecc. Verso quale "dove" condurrà ora la pittura di Debiasi? Forse ancora di più verso il dentro, a segnare accumuli e voragini, rotolerà su se stessa, ponendosi in una infinita, diffusa origine. Originando il senso della perdita e dello smarrimento. Pupilla che non guarda più, ma che si guarda, o come dice Novalis, pupilla che "si rovescia per cercarsi".

1989, Luigi Meneghelli per 'Paesaggi'.